Fare politica


di Pietro Giorgio Carena

Si fa politica per fare Politica. Anzi, si fa politica per farne di più, di politica. Non è scontato. Spesso, l'aggettivo "politico" viene attribuito ad un fare cauto e astuto, ad un dire e non dire. Al parlare poco e più spesso al tacere, per cercare e preservare gli equilibri della parte di appartenenza. Per perseguire finalità sottointese o non dichiarate (non necessariamente malsane, sia chiaro: anzi, spesso finalità sacrosante, ma frutto di sintesi complesse e faticose). E quindi il parlare, talvolta, viene letto come una specie di tradimento del gruppo, o una slealtà, o una semplice ingenuità. Prima di parlare, bisognerebbe condividere, mediare, smussare.

Ma questa visione appare discutibile. La migliore dimostrazione di lealtà nei confronti della propria parte politica potrebbe essere proprio lo sperimentare in campo libero (a voce, sui social, sui giornali) il proprio punto di vista, con la maggior nettezza possibile. Con la maggiore vivacità. Con la massima chiarezza.

Certamente questo comporta una maggiore difficoltà nella mediazione. Talvolta anche la sperimentazione di una disciplina di partito. Perché se la politica è "sortire insieme dai problemi" (come ricordava Lorenzo Milani), quell'insieme ad un certo punto richiede una mediazione, una rinuncia negoziata ad aspetti delle proprie idee. Ma prima di allora, la politica deve respirare liberamente nel campo delle idee e del dibattere. 
E il "fare politica" - e quindi, l'impegnarsi in una parte - vuol dire farne di più e non di meno.

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